Filippino Lippi, Disputa di Simon Mago e crocifissione di san Pietro (dettaglio), affresco, 230×598 cm, 1482-1485 ca. Firenze, Basilica di Santa Maria del Carmine (Cappella Brancacci)
Nella Chiesa cattolica è in atto una crisi di leadership a vari livelli. Tra i presbiteri, non è infrequente una certa ambiguità (quantomeno) nell’amministrare la cosa sacra. Tanti sembrano non essere all’altezza del delicato compito di guidare le anime, in particolare, e di guidarle all’incontro con Dio. Entrando in chiesa, è più facile che si sia attirati (sedotti!) dalla personalità eccentrica del celebrante, piuttosto che dalla Persona divina; così umile e discreta, Lei, nascosta in tabernacoli altrettanto appartati.
In un sempre valido studio del 2007 (Messing with the Mass: The problem of prestly narcissism today), Paul e Daniel Vitz mettono in evidenza i motivi psicologici – distinti da ragionamenti di tipo teologico e liturgico – alla base delle innovazioni nel rito della Messa.
In ambienti modernisti, è facile che il prete “sfoghi” il suo narcisismo proponendo siparietti creativi nella totale inosservanza delle rubriche. Ma non si pensi che, in ambienti trad, il prete narcisista rimanga frustrato: è tipico, per esempio, che proponga omelie lunghe il doppio, se non il triplo, rispetto al canone della Messa; fuori luogo non solo per durata, ma spesso anche per contenuto (autocelebrative, per fare un esempio).
Al di là del tema liturgia, in cui il narcisismo degli ecclesiastici si rispecchia in maniera più evidente, c’è da dire che questo disturbo – da intendersi proprio in senso clinico – ha un impatto rilevantissimo anche e soprattutto nella cura delle anime. Si può dire, anzi, che sia proprio la prospettiva di dominio e controllo diretto sulle anime ad attrarre narcisisti e psicopatici verso l’ufficio sacerdotale.
Secondo una stima non aggiornata, un prete su tre sarebbe affetto da un disturbo di personalità di questo tipo. Riconoscerli, in realtà, non è difficile: generalmente, gli ecclesiastici o i religiosi con DNP appaiono come grandi leader spirituali, stimati superficialmente da un buon numero di persone.
“Un buon numero di persone”: sì, perché si tratta di individui “magnetici”, in qualche modo, dotati di un certo fascino, di un certo carisma, e in ogni caso molto abili a manipolare allo scopo di attrarre.
Una tecnica classica, a questo proposito, è quella del love bombing, con cui si fa leva sul bisogno, che ogni persona ha, di essere accettata, valorizzata e di sentirsi parte di qualcosa. In una parola: amata.
Da manuale, il “bombardamento d’amore” consiste nell’adulare la vittima nel tentativo di agganciarla e quindi, poi, di consolidare con lei un certo legame. A quel punto, sarà più facile esercitare il controllo, e il desiderio di dominio del narcisista verrà appagato.
L’isolamento da parenti e amici reali può essere forzato, oppure può presentarsi come effetto collaterale: è molto importante, per il leader spirituale di turno, intrattenere con le proprie vittime dei rapporti morbosi, nel senso di esclusivi (vi è una forte pretesa di esclusività) e ossessivi.
La fase successiva è quella del controllo vero e proprio. I narcisisti, in campo religioso e non solo, traggono godimento nell’organizzare le vite degli altri. Di base, si incontrano due modalità: uno, da una parte, dubita; l’altro, dall’altra parte, sa. Il primo, inevitabilmente, trova riposante obbedire in tutto a un personaggio apparentemente autorevole. È deresponsabilizzante, senza dubbio. Il secondo, incoraggia una forma di idolatria, insistendo nel presentarsi come il detentore della Verità, o comunque come il necessario canale di comunicazione tra Dio e l’anima.
Non è raro che il prete narcisista si autoconvinca di avere dei doni eccezionali, dei carismi; di essere lui stesso, prima ancora, una persona eccezionale, rivestito di una missione grandiosa a beneficio di tutta la Chiesa!
Si parla dunque di “pensiero magico”, uno schema di pensiero ricorrente tra i soggetti con certi disturbi di personalità. Concretamente, la guida spirituale “carismatica” (in realtà disturbata) avrà la pretesa di conoscere chi ha davanti meglio di quanto chi ha davanti conosca se stesso. Così, indovinerà i suoi pensieri nascosti, ma in generale farà discorsi totalizzanti, apparendo molto sicuro di quello che dice.
I messaggi non verbali, in effetti, sono molto violenti, ma l’“adepto” li trascura. Il leader perverso ha fatto leva proprio sul suo punto debole: l’insicurezza (le vittime ideali hanno funzioni auto-critiche esacerbate), o addirittura – potremmo interpretare – un “ancestrale” e per certi versi sacrosanto bisogno di innocenza. Per dirla con Roustang: “Ognuno oscilla tra il desiderio di indipendenza, di dominio di sé, di responsabilità e il bisogno infantile di ritrovarsi in una condizione di dipendenza, di irresponsabilità e dunque di innocenza”.
Oltretutto, la vittima si ritrova confusa perché – citando questa volta McManaman in Narcissism and the Dynamics of Evil (2005) – “ci sarà sempre qualcosa di buono da scorgere, nell’egotista moralmente depravato” (giacché il “male assoluto” non esiste, filosoficamente…!).
Per quanto qualche traccia, seppur minima, di virtù, si possa ancora scorgere, nel manipolatore religioso, la vittima non pensi mai che il dialogo sia una via praticabile. Succede, in questo tipo di relazioni, che a un certo punto si avverta il bisogno di “riabilitarsi”, di ri-affermare la propria identità negata. Ansioso di ottenere uno scambio, il “represso” si espone, sincero fino all’inconvenienza. Scoprirà presto che più si espone, più l’altro trova pretesti per attaccarlo. Non appena rivela le sue debolezze, queste vengono sfruttate a suo danno.
Il problema di fondo è la mancanza di empatia, motivo per cui difficilmente si vede un narcisista ridere a scherzi e battute bonarie, meno che mai se riferite a lui. Guai a farlo arrabbiare, in generale: è cattivo, nelle sue vendette, che potrebbe servire in pubblico, in occasione di prediche e altri interventi pastorali. Conclusione tipica del j’accuse, utile a ribadire che lui ha (ancora) il controllo: “… ma, nonostante tutto, vi/li perdono”.
Arrivati a questo punto, le opzioni sono tre, le stesse messe in evidenza da ReL nella sua inchiesta di qualche anno fa: “restare e soffrire, restare e costringere il pastore ad andarsene, o lasciare te stesso”. Nella consapevolezza che con un perverso non la si ha mai vinta; tutt’al più, si può imparare qualcosa su di sé, su come rafforzarsi e come volersi davvero bene. Presupposto fondamentale, quest’ultimo, di ogni “relazione” propriamente detta, ben distinta dalle “dipendenze” indotte dai manipolatori emotivi e spirituali.
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